Bibliotecari e lavoro: ricerca, competenze e professionalità (seconda parte)

a cura di Vittorio Ponzani e Lucilla Less

Seguito degli interventi della giornata del 20 maggio 2016

[Prima parte]

 

 Tiziana Possemato
(@Cult)

@CULT srl è una software house focalizzata sulla consulenza, la progettazione e lo sviluppo di soluzioni tecnologiche finalizzate alla gestione delle informazioni e alla condivisione delle conoscenze. L’azienda, costituita da un gruppo che oscilla tra i 15 e i 20 dipendenti, è organizzata in due aree operative:
– la divisione “Beni culturali”, che si occupa di sistemi gestionali per biblioteche, centri di documentazione e archivi storici;
– la divisione “Enterprise”, che si occupa di sistemi ERP per integrare le funzioni aziendali coordinandone i flussi informativi.
I nostri collaboratori sono per 2/3 informatici e per 1/3 esperti di settore (bibliotecari e archivisti). Uno dei punti di forza della nostra azienda è quello di parlare lo stesso linguaggio, quello biblioteconomico e archivistico, delle istituzioni con le quali lavoriamo.
E proprio su questo linguaggio biblioteconomico e archivistico vorrei richiamare l’attenzione, perché le figure professionali che noi cerchiamo o formiamo devono avere la caratteristica di condividere e fondere un linguaggio di settore (quello dei beni culturali) con un linguaggio più puramente informatico. Ogni nostro collaboratore, sia esso un tecnico o quello che definiamo un “funzionale” (dunque un esperto del dominio), deve imparare a conoscere e a parlare secondo diversi linguaggi, diventando una figura “ibrida”, che sappia operare trasversalmente e non solo sul proprio specifico dominio. I nostri tecnici, dunque, imparano a familiarizzare con linguaggi di metadatazione tipo i formati MARC, il Dublin Core ecc., così come con i tanti standard che accompagnano il nostro mondo. Nello stesso tempo, i nostri bibliotecari e archivisti sanno orientarsi tra le tante tabelle di un database relazionale, sanno leggere e utilizzare linguaggi di demarcazione, sanno scrivere un documento di specifiche funzionali per lo sviluppo di un’applicazione o di un servizio, sanno mappare i linguaggi di settore con i linguaggi informatici ecc. La complessità nella formazione di chi opera in questo settore aumenta se si pensa alla contiguità di questo mondo con altri produttori di informazioni e di relativi standard: editori, provider, librai, blogger, webmaster, fornitori di prodotti e servizi per la digitalizzazione ecc. Tutto questo rende sempre più necessaria una formazione ibrida e una continua capacità di aggiornamento (per avere un quadro abbastanza esaustivo della ricchezza e complessità degli standard e linguaggi che accompagnano il mondo dell’informazione si veda <http://jennriley.com/metadatamap/>). La capitalizzazione e il riuso della conoscenza diventano, così, fattori fondamentali nella selezione e nella formazione delle persone, e il ruolo delle università nella capacità di potenziare queste abilità diventa cruciale. L’attenzione alla storia delle nostre discipline, affascinante e sempre fondamentale nella formazione dei futuri specialisti del settore, non deve esautorare le capacità formative delle nostre scuole e sottrarre eccessivo spazio a tutto un mondo, amplissimo, fatto di standard, linguaggi, regole, istruzioni, tecnologie sempre più globali e poco confinabili in spazi solo locali. Anzi, a questo proposito, è forse bene aggiungere che anche l’evoluzione dei formati delle risorse che le istituzioni delle cultura producono e gestiscono e dei servizi a essi collegati (penso ai processi di digitalizzazione, alle funzioni di distribuzione e fruizione di questi materiali, alle problematiche legate alla conservazione a lungo termine, alle risorse online, e quindi a tutto quanto è legato al mondo dei diritti ecc.) impone una sempre maggiore capacità di utilizzare standard e linguaggi che non possono e non devono essere circoscritti a quelli nazionali.
E nella mia funzione di produttore di software mi sento di sostenere che mai, nella lettura di un CV, sono attenta alla conoscenza ed esperienza maturata su un determinato software: i sistemi di automazione, se si hanno ben chiari in testa i processi e le logiche che regolano una disciplina, si imparano in qualche giorno. Ciò che bisogna dimostrare di avere è, invece, una capacità al “polimorfismo”, la consapevolezza di essere parte di un mondo estremamente complesso e in continua evoluzione, e la relativa abilità nell’applicazione del sapere ad ambiti e contesti sempre differenti. La formazione, nel nostro contesto, non può essere demandata solo alle canoniche aule didattiche, ma deve essere un processo logico giornaliero e continuo.
A conclusione di queste brevi riflessioni sulle competenze e professionalità richieste a chi operi nel settore delle biblioteche e del più vasto mondo dei beni culturali, auspico una sempre più stretta collaborazione tra i settori pubblici e quelli privati, che sono spesso degli “incubatori” di ricerca, conoscenza e competenza e possono così supportare e coadiuvare le scelte e l’operatività dei nostri istituti della cultura.

Federica Gargano
(CoopCulture, Area Biblioteche)

Mi ha fatto piacere, in occasione dell’incontro del 20 maggio scorso, mettere a disposizione degli studenti una testimonianza circa un possibile percorso da intraprendere nel nostro settore (quello della tutela e valorizzazione del bene archivistico e librario, lato quanto stricto sensu). Illustrando loro altresì come e perché può agire uno degli interlocutori privati in cui possono imbattersi avviandosi nel mondo del lavoro, ovvero una società cooperativa.
Lavoro presso la Cooperativa Culture, di cui sono socia e cui sono giunta attraverso un paio di passaggi: fusione con la cooperativa romana Pierreci della cooperativa Codess Cultura di Venezia (2010), di cui gestivo la piccola sede romana; prima ancora, fusione con la Codess Cultura della INCIPIT, la cooperativa di cui ero co-fondatrice e che ho co-gestito e poi gestito, dall’origine (1996) al 2004.
Ora lavoro nel settore biblioteche della nostra area Centro-sud (abbiamo un Centro-nord e un Centro-sud) e collaboro con il nostro ufficio gare – ciò che mi permette peraltro di avere una panoramica costante e aggiornata sul mercato (pubblico e non solo) del settore.
Nascendo medievista, avevo accarezzato il desiderio un po’ troppo ottimistico di poter vivere unicamente studiando la storia, lasciandolo piuttosto presto da parte dopo alcuni tentativi di dottorato, per percorrere invece poi l’iter di molti amanti del libro e del documento: scuole vaticane e specializzazioni. In particolare, insieme a coloro che furono poi in buona parte fondatori della INCIPIT, frequentai la scuola per “Conservatori di beni archivistici e librari della civiltà monastica” diretta magistralmente da Marco Palma e poi da Gabriella Braga.
Da quella scuola, tanto unica quanto rara (e ormai purtroppo scomparsa), uscì il nostro gruppo, incoraggiato dai nostri maestri a fare l’esperienza dell’impresa, del costruire una realtà nostra con le nostre forze, mettendo in atto tutto quanto avevamo imparato e iniziato peraltro a praticare con le iniziative della Scuola – veri e propri lavori, che la Scuola impostava e avviava con noi e che noi svolgevamo affiancati e diretti dai nostri docenti. Appunto, un’esperienza unica.
Ho vissuto allora anche quella “primavera dei concorsi” che nel 1999 il Ministero dei beni culturali bandì per tanti settori incluso il nostro, insieme ai miei compagni di specializzazione; decisi allora tuttavia che la strada imboccata era da tenere, perché il gusto di gestirsi un’iniziativa, e di vederla crescere mettendoci entusiasmo ed energie, veniva prima del timore di non procurarsi un impiego fisso. Impiego fisso che peraltro con il tempo e con tanto lavoro è poi arrivato, premio gradito di notevoli sforzi, insieme alla soddisfazione di rimanere fedeli ai propri intenti e interessi e agli entusiasmi e valori di fondo.
Ora, è senz’altro vero che non tutti facciamo “da grandi” ciò che intendevamo e sognavamo di fare “da piccoli”; lo ho vissuto e lo vivo, così come i miei soci originari e compagni di studi specializzati. E gli entusiasmi possono scemare, non c’è dubbio. Ma non facciamo eccezione, capita a tutti e in ogni settore.
Ed è vero anche che le difficoltà, in questo lavoro e settore e nel contesto economico attuale, sono molteplici e possono senz’altro a tratti scoraggiare, o comunque indurre a spendersi in tante e diverse attività parallele – anche diverse dalle nostre cui siamo affezionati – per poter stare a galla e andare avanti.
Ma nonostante ciò mi sento di dire che se amiamo ciò che facciamo, e siamo consapevoli del motivo per cui abbiamo intrapreso simili corsi di studi, siamo in grado di restare in corsa; in autonomia se “resistiamo”, in collaborazione con aziende come la mia, quando ciò è possibile. Perché come noto ciò avviene, e anche con soddisfazione reciproca.
Così come avviene che le aziende stesse favoriscano la circolazione e la condivisione delle risorse che hanno a disposizione, senza esserne gelose e dando possibilità di realizzarsi a tutti coloro che con esse collaborano. Anche questo è possibile.

Elena Petroselli
(laureata in Biblioteconomia e archivistica)

Dopo aver ascoltato il punto di vista di chi il lavoro lo offre, in quanto bibliotecaria ancora precaria ma in via di stabilizzazione penso che il contributo maggiore che possa dare sia raccontare il mio percorso: non ha nulla di eccezionale, ma proprio per questo può servire a dare un’idea delle prospettive di un neolaureato in Biblioteconomia.
Un mese prima di discutere la tesi magistrale ho inviato la mia candidatura per uno stage presso la Biblioteca della LUISS. Ciò che ha colpito durante il mio colloquio sono state soprattutto le competenze relazionali acquisite facendo la cassiera da IKEA: la capacità di trattare con clienti di ogni tipo, lingua, ed estrazione sociale, di saper affrontare emergenze, situazioni di forte stress e pressione, pesanti turni di lavoro, di inserirmi in un team di colleghi molto grande, diversificato e complesso nella sua gerarchia. Chi lo avrebbe mai detto? Anche lati più personali della mia vita sono stati apprezzati, come l’aver praticato danza classica a livello pre-agonistico per 13 anni: dimostra che so impormi una disciplina molto rigida, affrontare un duro lavoro, seguire una passione a prescindere dai sacrifici che comporta. Infine, dal punto di vista più prettamente bibliotecario, è piaciuto il mio interesse per il management nella tesi magistrale, più spendibile rispetto a una tesi di tipo storico in una moderna biblioteca universitaria. Quando il curriculum è ancora vuoto alla voce “esperienze professionali”, bisogna saper valorizzare il proprio percorso di vita: ogni aspetto può essere importante.
La prima cosa da tenere in considerazione quando si cerca lavoro, poi, è che la maggior parte delle persone che vi assumeranno non hanno modo di valutare la differenza di un percorso formativo fatto in un determinato ateneo rispetto a un altro e in molti casi non hanno una formazione universitaria specifica in Biblioteconomia. Non bisogna perciò dare per scontato che chi leggerà il vostro CV sappia esattamente quali competenze avete acquisito con il vostro titolo di studio. Un altro punto fondamentale è che l’università prepara in generale sugli elementi che accomunano qualsiasi tipo di biblioteca, mentre cambia moltissimo ciò che dovrai fare e saper fare a seconda dell’istituzione e, anche all’interno della stessa istituzione, a seconda del settore della biblioteca in cui ti chiamano a operare. Il consiglio che posso dare in questo senso è quello di cercare di coniugare il più possibile specializzazione ed esperienze trasversali, soprattutto all’inizio.
Dopo questa prima esperienza diretta in biblioteca ho lavorato presso istituzioni comunali, scolastiche e universitarie tra Roma e la Toscana. Un po’ per pura fortuna, trovandomi al posto giusto al momento giusto, ma soprattutto perché ho cercato in ogni luogo di lasciare dei piccoli “semi”, stringendo buoni rapporti con colleghi e direttori e ogni volta valorizzando le competenze specifiche acquisite, anche se non si può mai sapere quando questi semi germoglieranno: a volte mi hanno richiamato dopo anni. Molto considerato dal datore di lavoro è poi il fattore software: se già conosci l’applicativo usato, che sia per la circolazione o per la catalogazione, hai già una marcia in più, anche se effettivamente imparare a usare un nuovo software non richiede molto tempo.
La strada è indubbiamente lunga e difficile. Come direbbe Edmond Dantes, tutto quello che possiamo fare per il momento è attendere e sperare. E magari anche interessarci e informarci per cercare di cambiare le cose. Ma soprattutto, essere consapevoli dei nostri diritti in quanto laureati e non accettare ogni proposta solo per aggiungere una voce al CV, perché questo svilirebbe la nostra professionalità e anche quella di tutti gli altri, portando al continuo ribasso delle condizioni contrattuali. Ciò che dovrebbe distinguere uno stage da un contratto di lavoro vero e proprio (per giustificare la minor retribuzione) è il fatto che agli stagisti venga fornita una formazione e un affiancamento, attraverso orari flessibili e una selezione che non richieda il possesso di competenze già altamente specialistiche. Non dovrebbero quindi farsi carico delle stesse responsabilità dei lavoratori di ruolo e non dovrebbero supplire a carenze di personale, non avendone gli stessi diritti e tutele. Ma nemmeno i contratti di lavoro sono tutti uguali, non tutti danno le garanzie, le tutele e il corrispettivo adeguati a una professione così importante e qualificata: per poter scegliere con cognizione di causa cosa accettare bisogna imparare a conoscere le caratteristiche dei contratti di stage, di collaborazione occasionale accessoria (voucher INPS), di prestazione d’opera intellettuale, di servizio civile, contratto Multiservizi oppure Federculture. Sapere è potere.

Luca Lanzillo
(dottorando in Scienze documentarie, linguistiche e letterarie)

Sono convinto che sia fondamentale avere una formazione quanto più varia e ampia possibile: spunti dall’archivistica (attenzione al digitale, agli standard, ai formati) e dalle scienze sociali (ricerca qualitativa e quantitativa, bibliometria); attenzione alla progettazione (nozioni inerenti i finanziamenti locali ed europei, soprattutto tramite i canali regionali) e al fundraising, dato che sempre più risorse sono distribuite su basi “progettuali”; conoscenza e capacità d’uso di Wikipedia (come contributori attivi), la quale può offrire opportunità significative (ad es. corsi di information literacy nelle scuole: in tal senso non è necessaria la presenza di biblioteche fisiche, ma senz’altro di competenze bibliografico-biblioteconomiche). Sarebbe opportuno inoltre non fermarsi ai soli testi di esame, ma aggiornarsi costantemente sulle riviste di settore (anche straniere), sempre più ad accesso aperto, nelle quali passano tutte le novità in fatto di competenze e conoscenze sviluppate nelle nostre discipline.
Come bibliotecario “a partita IVA”, vorrei sottolineare un aspetto. Si parla sempre tanto di bibliotecari come “professionisti intellettuali”, dimenticando che troppo spesso (in Italia) si dovrebbe essere anche “artigiani della conoscenza”: di frequente la scelta non è Sebina/Aleph, Unimarc/MARC21, Reicat/RDA ecc., ma più semplicemente Excel/Access, se non Office/LibreOffice. Quante realtà, soprattutto scolastiche, non possiedono neanche una rudimentale biblioteca? Magari hanno qualche risorsa economica che potrebbero spendere in tal senso e non ci si può certo tirare indietro perché non possono permettersi un OPAC o un PC con l’ultimo sistema operativo! Si dovrebbero saper sfruttare, ad esempio, le grandissime potenzialità di applicativi come Excel (che non serve per fare semplici somme algebriche o grafici a torta) per realizzare un basilare catalogo; si dovrebbe saper formattare un PC con hardware obsoleto, ridandogli vita con una distribuzione Linux leggera, fornendo così un punto di accesso alla rete, nonché un terminale per l’ascolto di musica, la visione di filmati, la scrittura di testi.
Può essere l’occasione per gettare un seme, dal quale magari poi potrebbe scaturire un piccolo progetto di finanziamento che col tempo, chissà, potrebbe portare a una piccola biblioteca in grado di entrare anche in SBN con strumenti più “professionali”. Parafrasando una frase a me molto cara, direi: “quando il lavoro non c’è, inventalo!”.

ponzaniVittorio Ponzani – Presidente AIB Lazio – ponzani(at)aib.it

 

 



Lucilla LessLucilla Less – Vicepresidente AIB Lazio e membro Osservatorio lavoro e professione AIB – lucilla_aib(at)archivibiblioteche.it