Biblioteche, ambiente urbano, sviluppo: conversazione con Massimo Pica Ciamarra

Continuano le interviste di “AIB Notizie”: questa volta il direttore conversa con Massimo Pica Ciamarra, una delle più autorevoli voci dell’ Architettura Italiana ed internazionale. Laureatosi a Napoli nel 1960, libero docente dal 1969, dal 1971 al 2007 professore di Progettazione Architettonica nell’Università di Napoli, dal 2012 Professor I.A.A. – International Academy of Architecture. E’ stato dal 1997 al 2011 vicepresidente nazionale INARCH – Istituto Nazionale di Architettura,  vicepresidente BIOA – “Fondazione Italiana per la Bioarchitettura e l’Antropizzazione sostenibile dell’ambiente”. Presidente del Comitato Scientifico di “Bioarchitettura®”, coordinatore del Comitato Scientifico INARCH, Presidente dell’ O.I.A. – Observatoire international d‘architecture,  socio fondatore di IDIS – Istituto per la diffusione e valorizzazione della cultura scientifica,  è stato membro del Committee ’30 – Council of Tall Building and Urban Habitat Lehight University – Pennsylvania, USA; socio onorario dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura. Dal 2006 Direttore de “Le Carré Bleu, feuille internationale d’architecture”. Numerosissime le sue pubblicazioni e le sue realizzazioni tra cui la Biblioteca Sangiorgio a Pistoia, la Biblioteca centrale dell’Università di Salerno, la Biblioteca dell’Università del Molise, la Città della Scienza a Napoli ed il Polifunzionale di Arcavacata dell’Università della Calabria. Con lui parliamo di biblioteche, di spazi urbani e di socialità.

Ormai da anni rappresenti un punto di riferimento per tanti architetti, progettisti ed urbanisti. Una delle tue caratteristiche professionali è stata sempre quella di concepire lo spazio urbano come un insieme in cui elementi di diversa tipologia, provenienti dal lavoro umano ma anche dalla natura, si integrano. In questa visione cosa significa per te progettare una biblioteca?

Credo che la massima ambizione per un edificio sia quella di contribuire a creare un luogo di socializzazione della città e di riuscire a far ciò dialogando con i contesti spaziale ed a-spaziali in cui si immerge. Le Biblioteche sono luoghi di studio, ma non solo. Sono punti di riferimento, debbono includere spazi dove ci si può incontrare, liberi, attrattivi, … …  Dovrebbero costituirsi come elementi di una rete diffusa di luoghi di identità, intrecciarsi con gli spazi per l’educazione. Riprendendo una definizione di Bruno Zevi nel commento ad una nostra realizzazione, credo che molti edifici debbano costituire soprattutto una “deroga ludica alla recita istituzionale”.

Sulla base delle tue personali esperienze, con particolare riferimento allo scenario italiano,  quali sono state le maggiori difficoltà nella concezione e nella progettazione di una biblioteca (e di istituti culturali simili)?

Qualsiasi ambiente di vita risponde a funzioni, ha uno scopo, ma soprattutto è portatore di senso, manifesta modi d’intendere i rapporti umani. Può costringere o liberare energie, può esprimere separazioni o continuità, atomizzare od associare. La concezione di un progetto peraltro dovrebbe appartenere anche alla collettività, che deve attentamente individuare i progettisti con cui entrare in sintonia. Il processo partecipativo – è alla base del progettare – consente di mettere a fuoco obiettivi, ambizioni, speranze; può arrivare fino a definire quella che mi piace chiamare “armatura della forma”. La definizione successiva del progetto rientra invece nelle esclusive competenze tecniche, riguarda i “progettisti”. Quando è chiara la distinzione dei ruoli, quando c’è empatia sull’impostazione di un progetto, quando si progetta per costruire ambienti di vita migliori, non possono determinarsi difficoltà!  La mia visione fiduciosa nei nostri contesti però  si scontra spesso sia con la scarsità di risorse, decisamente inferiori a quelle medie di altre realtà europee, sia con la perversa abitudine tutta nostrana di frazionare il processo, di non avere la prassi di un’unica regia: dalla fase di concezione fino alla realizzazione ed anche fino all’arredo, alla segnaletica, e via dicendo.

Hai al tuo attivo  numerose ed importanti “recuperi delle pre-esistenze”: come pensi  che quest’esperienza possa utile alla specificità dello spazio bibliotecario?

Premetto due assunti, dei quali sono sempre più convinto:

  • la sola differenza fra progettare un nuovo edificio e recuperare l’esistente è nella diversa densità dei vincoli entro cui si agisce;
  • non credo nell’utilità delle distinzioni funzionali: è più utile riflettere su come si intreccino esigenze di aggregazione e di isolamento; come si facilitino comportamenti e si consentano emozioni e rapporti fra condizioni di spazio diverse; come si articolino continuità e discontinuità, luce e oscurità ….

Certo un luogo dove chiunque deve trovare a sua disposizione documenti (libri, ma non solo) richiede protezione, possibilità di isolamento insieme a possibilità di ragionare in più persone sulle stesse cose, confrontarsi, discutere. Una biblioteca necessita di una molteplicità di spazi con caratteristiche differenti, ma questo dipende molto dalla sua dimensione: una cosa è una biblioteca che è parte di un quartiere, altra cosa una biblioteca di grande dimensione che spesso raccoglie anche documenti rari.

Qual è invece, la frontiera? Quali caratteristiche avranno gli edifici bibliotecari del prossimo futuro?

Mi piacerebbe che siano sempre più spazi di incontro, luoghi dove si intreccino e siano compresenti modalità diverse. La fortuna che ha avuto la Biblioteca Sangiorgio, quella che abbiamo realizzato a Pistoia qualche anno fa, deriva proprio dall’essere un germe di questa “rivoluzione”. Il futuro non può essere di isole monofunzionali, sarà sempre più di articolazioni spaziali capaci di includere, e nello stesso tempo di salvaguardare nicchie di specificità.

L’articolazione degli spazi interni di una biblioteca ed il suo rapporto con i contesti (spaziali ed a-spaziali) è importantissima, ma non basta. È sostanziale la gestione della biblioteca, la capacità di renderla ricca di occasioni, di generare mutazioni, di farla interagire con chi la frequenta.

Gli ultimi vent’anni hanno visto molti progetti e molte realizzazioni di nuovi edifici bibliotecari in Europa e nel mondo. Sembra quasi che la volontà di progettare questo tipo di edificio costituisca una smentita per le troppo facili profezie di “sparizione delle biblioteche nel mondo dominato da Internet”. In Italia si è realizzato molto meno ed i progetti più ambiziosi (Milano, Napoli) si sono fermati bruscamente. In queste difficoltà vedi una specificità italiana?

Questa italiana è una realtà molto lenta per un intreccio di motivi diversi: trasformare presuppone continuità di azione, volontà, decisione. Nel confronto internazionale siamo lenti.  Le biblioteche, e così tutte le tipologie tradizionali, si trasformano; si avvalgono delle innovazioni tecnologiche che non rappresentano solo strumenti, sono spinte a mutazioni di mentalità, ad intrecci inesplorati.

Tutto questo è possibile se si investe con decisione nella qualità degli ambienti di vita.

Un auspicio per la “buona pratica architettonica” in questo campo?

Trasformare le “regole” in “raccomandazioni”, i “manuali” in indicazioni contraddittorie, cioè che non suggeriscano banalizzazioni, che non diano esempi, ma spingano invece a riflettere, ad interpretare i luoghi. Non credo che nella pratica architettonica debbano prevalere le regole interne di una costruzione. Credo invece che le logiche di immersione nel contesto devono assumere un ruolo sempre più forte. Giancarlo De Carlo sosteneva che prima motivazione di un’architettura è di corrispondere ad esigenze umane e che prima condizione è collocarsi in un luogo specifico.

Non è quindi ragionando sui linguaggi espressivi che si perviene a buone pratiche, non è rispondendo a regole astratte: occorre dare forza a requisiti ed obiettivi, non a banalità od a dictat impositivi.

Grazie per la tua disponibilità!

Ferruccio Diozzi

Ferruccio.diozzi@gmail.com