Bibliokinetheke

Centochiodi

Le prime immagini dei Centochiodi di Ermanno Olmi sono di stordente potenza visiva: manoscritti e incunaboli, inestimabile patrimonio sapienziale dell’umanità, inchiodati con grossi chiodi da carpentiere sul pavimento di legno e sui banchi della Biblioteca storica dell’Università di Bologna. Come azzarda la procuratrice, intervenuta per le indagini: «Se non suonasse irriverente verrebbe da dire che si tratta dell’opera di un artista geniale». Quel mare di libri inchiodati, nel tempio bolognese della scienza del sacro, è di sicuro un’icona destinata ad imprimersi nella memoria dell’immaginario spettatoriale.
Agli occhi del guardiano, Libero, la scoperta è una disgrazia, una strage degli innocenti. Lo stesso per l’anziano monsignore, «un sant’uomo di chiesa, che ha dedicato l’intera esistenza a questi libri», che rappresentano la sua miglior compagnia, come racconta agli inquirenti: «Mi basta toccarli, […] anche solo sfiorarli, che subito li riconosco e mi torna in mente tutto quello che in tanti anni mi hanno detto. Ogni sera, quando chiudo questo cancello, prima di andarmene, mi volto indietro a guardarli ancora una volta. Abbandonare questi amici fedeli, anche solo per una notte, mi pare quasi di tradirli». Un amore smisurato, sfociante nel patologico, dai contorni feticisti, dimostrazione di un sapere isolazionistico, arroccato sugli scranni cattedratici, avulso dalla realtà. A renderlo evidente contribuisce il contesto: uno spazio schiacciato da compatte scaffalature ricolme di volumi, immerso in una penombra sepolcrale, perché, sempre a detta del monsignore,: «i libri amano il buio, come i pipistrelli; la luce del giorno li rovina».
Ma in questa roccaforte della cultura non tutti la pensano alla stessa maniera; nel corso delle indagini emerge infatti un approccio al sapere concorrente a quanto professato dal religioso. È quello che insegna il professorino di Filosofia della Religione, chiamato così perché scambiato per studente, che, ad esempio, discutendo, all’interno della Biblioteca, con una laureanda sostiene: «Si guardi attorno. Siamo circondati dal sapere universale. Quanta verità è stata proclamata in questi libri. A cosa sono serviti? Ad ingannarci gli uni con gli altri… Mi dia la sua mano. Sente il calore? C’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri». O ancora, al momento del commiato dagli studenti prima delle vacanze: «Auguro a tutti una buona estate; ma prima di lasciarci voglio congedarmi da voi con un pensiero di Karl Jaspers, uno dei fondatori dell’Esistenzialismo: “Viviamo in un’epoca in cui ogni spiritualità si converte in profitto.
Tutto viene fatto in vista di un guadagno. Un’epoca in cui la vita stessa è una mascherata; in cui la felicità del vivere è falsa come l’arte che la esprime. In una simile epoca di perduta genuinità è forse la follia la soluzione per la nostra esistenza?”. Buona estate». E si rivelerà che sarà proprio lui, che aveva confidato al monsignore la sua propensione per i voti sacerdotali e manifestato il suo profondo interesse per l’alto pensiero filosofico, l’autore dell’assassinio dei libri.
Disgustato dai potenti del sapere, decide, procedendo per gesti perentori, di sfuggire da quella tentacolare massoneria che lo stava avviluppando tra le sue spire. Stanco del pensiero e della parola scritta come sua esemplificazione testimoniale, il professorino scappa, facendosi credere morto, per nascondersi lungo le rive del Po, dove scopre un piccolo mondo, non nuovo, ma estraneo alle logiche che stavano corrompendo il suo vivere. Perché è questo che più lo fa soffrire: l’inautenticità. Come del resto si era capito già dagli esiti della sua furia bibliocastica, riproposta e ricostruita in flashback, arrestatasi davanti ad un libro riportante le parole del colloquio di Gesù con Nicodemo: «Bisogna che un uomo torni a nascere. Chi non comincerà dal principio non potrà conoscere la verità. […] Chi rinasce nella verità crede in ogni cosa che il suo occhio vede».
Di fronte a questo mondo residuale, antico, sfuggito al moderno, che convive quotidianamente con la minaccia della propria distruzione, non può far altro che assumerlo pienamente, condividendolo fino in fondo con le persone che lo circondano.
Ma il buen ritiro, in quanto tale è precario, e non passa troppo tempo prima che il professore venga scoperto.
Riconosciutosi responsabile ma non colpevole per la “crocifissione” dei testi sapienziali, alla presenza del monsignore si ripropone la lacerazione che è stata all’origine del tutto:

Monsignore: Io questi libri li amavo.
Professore: Lei ama più i suoi libri degli uomini.
Monsignore: I libri sono amici fidati; in quei libri c’è tutta la sapienza del mondo.
Professore: La sapienza del mondo è una truffa.
Monsignore: Ma cosa dici? La parola di Dio una truffa?
Professore: Dio non parla con i libri; i libri servono a qualsiasi padrone e a qualsiasi dio.
Monsignore: Dio ha riposto in quelle pagine parole di vita eterna per la salvezza di tutti i suoi figli. Professore: Dio! È Dio il massacratore del mondo? Non ha salvato nemmeno
suo figlio sulla croce.
Monsignore: Non bestemmiare! Offendi anche la tua intelligenza che Dio ti ha donato in abbondanza. Il giorno del giudizio dovrai renderne conto.
Professore: Nel giorno del giudizio sarà Lui a dover rendere conto di tutta la sofferenza del mondo.

Centochiodi non è di certo il miglior film di Ermanno Olmi, a tratti infelicemente discontinuo nei registri narrativi, troppo desideroso di raggiungere la nettezza didascalica d’una parabola; tanto debole e stentato quando è verboso e finto, quanto forte nel momento in cui segue – o magari attende con fiducia – il succedere del contingente, quando si sente che la macchina da presa s’innamora dell’umano e del vivente. Una microstoria che fin dalle prime immagini si costruisce come una ricerca sul senso del vivere, sulla necessità di compiere scelte radicali, caratterizzata però da cadute didascaliche e pedagogiche davvero troppo brusche ed esplicative.
Tuttavia questa disomogeneità mette in circolo idee cinematografiche di grande suggestione, per esempio il confronto tra il sapere, e quindi anche la religione, da un lato inteso come dogma e dall’altro vissuto come enigma. Si avverte, in quel provocatorio invito ad andare al di là delle rassicuranti copertine dei libri, un radicalismo intellettuale e spirituale autentico, un reale bisogno di confronto con l’altro da sé, con l’inconoscibile. Ma soprattutto la necessità di condivisione con una comunità allargata, per non scoprire, guardandosi indietro, soltanto pagine, una vita fatta unicamente di carta. Ché alla fine «tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico».